Pasqua
a Bormio
MARCELLO CANCLINI, sull'opuscolo
di presentazione dei Pasquali
Una
splendida cornice invernale fa quest'anno da contorno a quella che dovrebbe
essere una tradizione simboleggiante il risveglio della natura dal lungo
torpore della stagione fredda. Al suono festante delle campane annuncianti
la Pasqua di Resurrezione, una lunga coda di pastori e di pastorelle vestiti
ricalcando in parte l'antico modo di abbigliarsi dei nostri antenati contadini,
farà da contorno alla tradizionale sfilata dei Pasquali. Una serie
più o meno numerosa di barelle, rigorosamente portate in spalla,
verranno trasportate fino alla chiesa dei SS. Gervasio e Protasio per ricevere
la benedizione arcipretale.
Quello che un tempo era la semplice
benedizione di un agnello, si è oggi trasformata nella creazione
di vere e proprie opere d'arte a sfondo religioso che spesso necessitano
di interi mesi di fervido ed alacre lavoro. I laboratori ove avviene la
loro realizzazione vengono gelosamente tenuti nascosti e spesso si verificano
appostamenti per scoprire il taulà, fienile, ove hanno luogo
i lavori. Ogni componente partecipa alla preparazione: c'è chi si
occupa della costruzione della portantina, chi delle colonnette di legno
ove inserire il muschio, chi del confezionamento di casette e di chiese
in miniatura e così via. Nella notte del Sabato Santo il lavoro
diviene quasi febbrile e impegna spesso fino a tarda notte. Il dì
di Pasqua è tutto finalmente pronto e, dopo aver un po' faticato
per far uscire la gigantesca baréla, portantina, dal taulà,
ci si avvia per la sfilata
preceduti da un gruppo folkloristico
di contadinelle, bambini in costume anche in tenera età, che portano
i frutti della terra e i prodotti tipici locali all'interno di ceste e
gerla o di piccoli carretti trainati da asini o capre.
Questo il Pasquale moderno: ma cosa
avveniva un paio di secoli fa. Com'era la Pasqua e soprattutto la sua preparazione
durante la settimana? In un silenzio quasi tombale di una fredda giornata
primaverile del 1830, ove l'inverno voleva ancora farla da padrone, il
suono cupo e maestoso della Baióna scandiva i suoi rintocchi annunciando
il richiamo della processione del Mercoledì Santo. Mamma Caterina,
come tutte le altre donne del paese, aveva rassettato l'andito dinanzi
a casa con l'aiuto dei figli, mentre nei giorni precedenti si era recata
in chiesa ad aiutare a pulire i banchi di legno, le predelle degli altari
ed a riassettare addobbi e tovaglie. Papà Pietro invece con altri
uomini del rione, aveva rimosso con cura lo sterco secco del bestiame e
cu li dagia de péc, con le ramaglie di pino, aveva accuratamente
ricoperto i montón de la gràscia, i mucchi di letame,
per rendere più decorosa la loro via. Tutto ormai era pronto per
la processione del Mercoledì Santo e mamma Caterina, con la sua
lunga sottana scura, con sopra l'elegante sc'cusàl de la fésc'ta,
grembiule festivo, il pesante scialle di lana ed il velo in capo, si recava
frettolosamente verso il sagrato della Collegiata dei SS. Gervasio e Protasio,
da dove si sarebbe snodato il lungo corteo religioso. Dalla piazza della
chiesa stava già partendo l'arciprete con il gran codazzo di confratelli
diretti verso la più modesta, ma non meno venerata, chiesa del Santo
Crocifisso di Combo. Mamma Caterina, trascinando con sè il figlio
Pedro, riuscì, passando per la viuzza sopra la piazzetta
della frutta, là dove c'era l'antica apoteca aromatica, farmacia,
ad intrufolarsi nel corteo. Ma a Pedro poco importava quella processione:
pensava già al dì successivo quando si sarebbe svolta la
più importante e sentita processione del Giovedì Santo. Aveva
già nella mente la sua ghéa, raganella, appesa in
soffitta a fianco della taoléta che suo fratello Giovanni,
nato quattro anni prima, nel 1816, per diritto d'età, avrebbe appeso
al collo al seguito del corteo. Il giorno dopo infatti Pedro e una
frotta chiassosissima di altri fanciulli faceva un rumore assordante con
il battere e lo scricchiolare di quegli aggeggi lignei. Lo stridere delle
ghée o trich-tràch, rimbombava tra le anguste
vie del borgo, soffocando il salmodiare del clero e dei fedeli. Pedro
aveva la mano ed il polso indolenziti a furia di roteare quello strumento
ligneo che con una stecca scandiva il suo rumore urtando su una ruota dentata.
Giovanni dal canto suo, aveva un bel da fare con la taoléta
appesa al collo: una specie di cassetta sulla quale, mediante l'azione
di una manovella, battevano alternativamente due stecche e due martelli
di legno. Per Pedro, Giovanni e tutti gli altri ragazzi, le raganelle
costituivano un piacevole gioco e forse non capivano che quel rumore aveva
solo un ruolo sostitutivo nei confronti del suono delle campane che, dalla
celebrazione della funzione del Giovedì Santo, restavano mute fino
all'intonazione del "Gloria in excelsis Deo" della messa della veglia pasquale.
La sera stessa del Giovedì
Santo papà Pietro, terminata la processione, dopo aver faticosamente
portato insieme agli altri confratelli, croci e stendardi, si fermava dell'oratorio
accanto alla chiesa dove, alla presenza dell'arciprete, veniva riprodotta
l'ultima cena di Nostro Signore Gesù Cristo. La cena, quella che
in gergo era il cosiddetto magliar la vàca, era a base di
aringhe affumicate, pane, frutta secca ed abbondanti libagioni di vino.
Mamma Caterina non era molto contenta di quel ritrovo tra confratelli,
perché alle volte papà Pietro alzava un po' il gomito e si
raccontava in paese che addirittura una volta intervenne anche il vescovo
da Como ad ammonire la confraternita... .Terminata la cena, il più
anziano dei confratelli lavava i piedi ai dodici confratelli che lo seguivano
per età.
Il venerdì seguente mamma
Caterina preparava ben poco sulla tavola: era giorno di astinenza perché
in quel dì era morto il Signore. Pedro con lo stomaco brontolante
si accontentava di attendere le venti, quando partiva la terza processione
della settimana, la più importante, ove poteva ancor una volta sfogare
la sua gran voglia di protagonismo roteando la ghéa. Tutto
però, in quel lungo corteo, sembrava più tetro ed anche i
ragazzi, forse inconsciamente, roteavano con meno ardore i loro strumenti.
I confratelli con il camice bianco e cappetta nera circondavano e portavano
con prostrazione e viso cupo il tetro baldacchino ove giaceva la statua
del Cristo morto. Pedro durante la sfilata per le strade restava
affascinato dai palloncini di carta variopinti, dai piccoli altarini con
croci e statue illuminati da candele e lumini presenti ad ogni uscio e
finestra. Anche lui insieme alla madre, aveva nel pomeriggio preparato
la sua porta di casa, tappezzata di muschi e licheni ed aveva appeso alla
finestra dei piccoli lumi costituiti da semplici gusci di lumache con stoppino
riempiti d'olio. La processione era pomposa e solenne, ma Pedro
rammentava ancora quello che papà Pietro raccontava dalla voce di
nonno Jacobo e dei suoi avoli che scendevano dal piccolo villaggio
di Piatta per vedere le sacre rappresentazioni che venivano fatte in quel
dì sulla baltresca in chiesa. La baltresca non era
altro che un palco di legno ove veniva esposta la statua del Cristo morto
ed ove attori del popolo rappresentavano scene della passione. Nella
mattinata del Sabato Santo, Pedro, Giovanni ed il piccolo Carlo,
accompagnavano il padre che portava sulle spalle un fascio di legna, portando
anch'essi, tra l'acciottolato sconnesso, dei piccoli fasci di frasche.
Questa legna, unita a quella portata dagli altri paesani, faceva sì
che si formasse sul sagrato della chiesa una grande catasta di ramaglie
alla quale, all'apertura della cerimonia della veglia pasquale, l'arciprete
avrebbe appiccato il fuoco. Era il fuoco benedetto, il fuoco santo, con
il quale l'arciprete accendeva il cero pasquale simbolo del Cristo risorto
e le tre candele del triangolo, grosso candelabro a tre braccia. Mamma
Caterina correva in chiesa a farsi largo tra la moltitudine di fedeli che
cercavano di accaparrarsi un piccolo moccolo di quelle tre candele distribuito
dal sagrestano. Sì, perché quella era la famosa céira
del triangul, cera del triangolo, cui si attribuivano poteri taumaturgici.
Mamma Caterina si fermava poi in fondo alla chiesa ad attingere acqua per
portarla in casa a riempire le due acquasantiere poste sopra il capoletto
del lec' del pà, del letto del papà. Uscita di chiesa
si fermava a raccogliere anche qualche pezzo di carbone, residuo della
grande combustione del fuoco benedetto: carbone sacro, che avrebbe depositato
nel focolare domestico per difendere la casa dagli spiriti e da qualsiasi
maleficio e sparso nei campi e nell'orto per propiziare buoni raccolti.
Quella sera Pedro, Giovanni
ed il piccolo Carlo, avevano avuto il permesso di rimanere nella stalla
a preparare al tron per al ciutìn de portar in gesa al dì
de Pàsc'cua, il trono per l'agnellino da portare in chiesa il
giorno di Pasqua. Martelìna, musc'c', lìchen e bruch,
bosso, muschio, lichene ed erica, erano i semplici addobbi naturali di
quella piccola portantina issata in spalla da un sol pastorello che già
allora veniva chiamata Pasquale. Tutti gli amici di Pedro facevano a gara
per portare in chiesa l'agnello più riccamente adornato: chi lo
portava in un corbello, chi a tracolla, chi issato su un pianale posto
sulla cima di un'asta. Tutti i ragazzi ed anche gli adulti sfilavano dalla
loro contrada verso la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio vestiti nel loro
abito da pastori. Anche Pedro aveva il suo che teneva gelosamente
custodito ne l'arcón, nella cassapanca, del corridoio di
casa. Sopra i soliti calzoni scuri con la pata denànz e dedré,
lo sportello davanti e dietro, e sopra quei soliti rigidi scarponcini con
suole di legno brocchiate, metteva per l'occasione i strivàgl,
le uose, mentre in vita una specie di sciarpa multicolore con sfondo aragosta
(tintura ottenuta con la sc'córza de làresc, la corteccia
del larice) fingeva di sostenere le brache. La camicia bianca di lino era
di quelle proprio della festa ed il suo colletto veniva celato da un povero
e sdrucito foulard simile ai colori della fascia. Il cappello tondeggiante
a larga tesa di panno nero e con fiocco nero diveniva più elegante
e pomposo a seconda dei piumaggi di selvaggina che si riuscivano ad inserire.
In tal foggia Pedro raggiungeva, accompagnato dagli altri due fratelli
e da altri contradaioli, in quella frizzante mattina di Pasqua, la chiesa,
ove l'arciprete avrebbe impartito la solenne benedizione a tutti i fedeli
ed agli spauriti agnellini.
Mamma Caterina, diceva che il Pasquale
non era solo tradizione bormina, ma riguardava anche le valli limitrofe.
Infatti, in quegli anni, bisognava pagare il Pasquale al mónich,
al sagrestano.
La fabbriceria di ogni parrocchia
provvedeva alle spese di un "montone lanuto" che il sagrestano doveva procurarsi
e distribuire in pezzi alla popolazione il dì di Pasqua. Mamma Caterina
diceva però che quella tradizione nella sua vallata avrebbe avuto
vita breve perché ormai le bocche da sfamare erano troppe e la fabbriceria
non aveva più i soldi per acquistare un altro animale. Anche in
Bormio nei giorni antecedenti la festa, i contradaioli passavano tra la
gente del paese a raccogliere offerte in denaro con cui acquistare i più
floridi montoni che, previa aspersione con l'acqua benedetta, venivano
sacrificati per imbandire la mensa di ogni abitante. In quel dì
di Pasqua, dopo la benedizione degli agnellini, Pedro teneva nascosto
sotto il mantello al sedelìn de tóla nel quale avrebbe
messo il suo bel pezzo di carne benedetta cotta al forno che veniva distribuita
per ogni contrada in modo che tutti potessero avere sulla mensa, cibo gustoso
e benedetto!
Chissà cosa avrebbe detto
Pedro vedendo i Pasquali di oggi...